IN VOLO SU IBLA

IN VOLO SU IBLA

Scatto una foto e torno bambino.


Per chi non lo sapesse un tempo le Ragusa erano due, Ragusa Ibla e Ragusa, dette Jusu e Supra almeno cosi le chiamava mia nonna. Uno scossone nel 1693, più che dividere in due la città (Ibla) che in realtà si sgretolò, divise la sua gente.

Le due parrocchie principali della città, nel più classico dei copioni italici, erano solite lanciarsi sguardi di sfida e quando, tra una scampanata e l’altra il democratico Terremoto buttò giù entrambi i campanili ecco che Sangiurgiari e Sangiuvannari, già divisi di fatto, decisero di edificare due diverse città, una completamente nuova e l’altra sulle rovine della precedente.

L’incomprensione è pur sempre figlia dell’amore e non ebbero il coraggio di allontanarsi poi troppo, separati ma non abbastanza per dimenticarsi, lontani ma non abbastanza da perdersi di vista. Fu cosi che i parrocchiani di San Giovanni si spostarono sul monte Patro, attraversata la vallata poggiarono lì le fondamenta di un nuovo centro urbano e di una nuova chiesa per il loro Santo. I fedeli di San Giorgio rimasero riedificando il vecchio centro.

Era l’età del Barocco e quelli che prima erano colpi di campane si tramutarono in colpi di scalpello, due avventure artistiche presero il via contemporaneamente, l’una scrutando l’altra, l’una sfidando l’altra. Il risultato oggi meraviglia ancora per eleganza e magnificenza.

Si guardano ancora le due Ragusa, i vecchi attriti sono sopiti e gli sguardi sono solo di ammirazione. Ragusa oggi è una sola città, bella anzi bellissima ma per comprenderla non si può negare la sua origine. Una scissione, probabilmente dolorosa, innescata da una tragedia epocale ha generato uno straordinario fermento artistico e culturale che quella gente riuscì a “cristallizzare” in forme architettoniche indimenticabili.

Una commovente elaborazione di un lutto, in fondo Ragusa è anche questo.

Dimenticare? Ricominciare? Rialzarsi? Lasciarsi andare? Ad ognuna di queste domande i superstiti di quel disastro risposero sempre con coraggio intraprendendo un’avventura meravigliosa di rinascita e sacrificio. La città stessa è la risposta a quelle domande e la risposta sembra essere stata quella giusta; un esempio da seguire, un insegnamento di vita. Alla più grande delle difficoltà si dovrebbe sempre rispondere con spirito simile a quello che animò questa straordinaria vicenda collettiva.

Guardare Ragusa vuol dire anche ascoltare una storia, questa storia, fatta di dolore, di rinascita e di grandi decisioni; guardare Ragusa significa immaginare un tempo in cui l’arte era strumento per ricominciare, era messaggio di speranza, era eredità, era valore per quel presente, per il nostro presente.

Da piccolo, io figlio di “sangiorgiaro emigrato” sul Patro mi ricongiungevo all’amata patria Ibla solo in occasione dei festeggiamenti in onore di San Giorgio, i miei nonni ci vivevano ancora e mio padre ci portava lì a piedi, per vie e scale. No, non era per ammirare l’allora “dimenticata bellezza”, era per evitare di parcheggiare l’auto tra le poco moderne vie del vecchio quartiere ma io ad ogni scalino mi innamoravo di tutto ciò che vedevo, inconsapevolmente imprimevo quelle immagini nella mia mente bambina.

I miei ricordi di quelle discese e risalite è come se fossero sospesi in volo su Ibla, le girano intorno, mi aspettano, mi chiamano ed ogni volta che ne riconosco uno scatto una foto e torno bambino.


Questo arco si trova ai piedi della splendida scalinata di Santa Maria delle Scale ed altro non è che un sottopasso, sopra infatti scorre Corso Mazzini che collega i due quartieri della città, non so quanti altri sottopassi siano in grado di incorniciare una vista simile a questa. Per me è sempre stato l’ingresso a Ragusa Ibla e per alcuni piccioni un rifugio, il loro svolazzare mi fa pensare ai miei ricordi sospesi in volo sulla città.


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© Fotografia e Testi di proprietà di Salvatore Gulino

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